Fidei Communio 2025/1

Contributi di Alessandro Clemenzia, Paul Gilbert, Cecilia Costa, Domingo García Guillén, Manuel Palma Ramírez, José Granados, Roberto Regoli, Andrea Riccardi

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Fidei Communio 2025/1

Paul Gilbert

Intelligenza artificiale, metafisica ed etica

Da un po’ di tempo, le pubblicazioni che si interessano all’IA si sono moltiplicate. Alcune riviste hanno realizzato recentemente fascicoli destinati interamente a questo tema. È il caso del primo fascicolo dell’Archivio teologico torinese di quest’anno, o quello parigino delle Recherches de sciences religieuses (già il quarto fascicolo del 2023). La Civiltà Cattolica ha pubblicato nel 2020 un volume intero della sua collana Accènti sul tema dell’IA. Il mondo filosofico non rimane ovviamente indietro, con l’edizione di quest’anno 2024 di una ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano: Umanesimo e digitalizzazione: teoria e realizzazione pratiche. Queste pubblicazioni evidenziano tutte quanto il fenomeno influisca sulla credibilità che le popolazioni accordano alle istituzioni, politiche ma non solo, e ai sistemi d’informazione.

Due domande sorgono subito nei nostri pensieri. La prima: perché l’IA sta scuotendo adesso l’umanità intera in un modo che nessuno aveva mai previsto? Tutte le culture dell’umanità hanno conosciuto molte novità nelle loro lunghe storie,1 ma mai una novità ha provocato nella coscienza umana un simile shock. I campi d’applicazione dell’IA si moltiplicano infatti in tutte le attività delle nostre giornate, e non sappiamo come preservare la nostra intimità e libertà. Da un lato, la sottigliezza dell’IA stupisce; dall’altro lato, la si teme, forse non a causa delle sue proprietà tecniche infatti affascinanti, ma a causa del suo uso malintenzionato e desideroso di conquistare una fama di palcoscenico senza una vera competenza. La nostra epoca, infatti, è quella delle fake news e delle passioni tristi.2 Ed è l’epoca inquietante della sostituzione dell’intelligenza umana con macchine elettroniche.

La seconda domanda: che cosa sappiamo dell’avversario? Ne abbiamo paura infatti perché non sappiamo chi è, come controllarlo. Le radici del nemico non si manifestano. Vediamo solo che la sua potenza aumenta, togliendo alcune delle nostre prerogative, ogni tanto per la nostra felicità, ma non sempre, particolarmente quando la tecnologia riesce a farci credere che siamo in presenza di persone competenti e senza desiderio d’ingannarci, cioè di persone libere e gentili, quando invece si tratta di macchine che non possono uscire dalle necessità che i costruttori hanno loro imposto – e non sappiamo chiaramente ciò che vogliono questi fabbricanti. L’era dell’IA generativa sta iniziando, ma generativa di che cosa? La nostra ignoranza e impotenza ci inquietano.

Queste problematiche hanno un’importanza dal punto di vista della metafisica? Dipende da ciò che si intende con la parola metafisica. Qui, però, ci sono tante domande e nessuna risposta convincente. La fisica, sappiamo cos’è, anche se nel modo confuso di chi non è specialista. La biologia, immaginiamo di sapere che cos’è. Anche la sociologia. Anche la psicologia. Anche la statistica. Ma la filosofia? La metafisica? Sarebbe una buona idea rinunciare al progetto di includerne una definizione soddisfacente nei dizionari o enciclopedie. Diciamo che, nella tradizione italiana, la metafisica si preoccupa dell’intero. Questa preoccupazione può prendere la forma dell’«ontologia», cioè di una discussione (λόγος) sul concetto più universale, l’ente. Preferisco una prospettiva più antropologica, poiché chi non desidera conoscere qualcosa non conoscerà niente. Il desiderio, che ci stimola a conoscere, e a conoscere sempre di più e meglio, è una dinamica antropologica omnicomprensiva prima di essere epistemologica.3

Come procederemo, quindi, per rispondere a tutte queste domande? Di tradizione, la filosofia non nasce mai da sé, ma da problemi incontrati nella vita sociale, e più particolarmente nelle dinamiche scientifiche. Prima di tutto, cercheremo dunque da quale eredità scientifica proviene l’IA. Preciseremo poi il tipo di eccellenza o di minaccia che le sarebbe immanente e che turba o esalta la nostra curiosità: si tratterà del suo statuto di strumento utile. Tenteremo infine una riflessione prettamente filosofica e adatta.

♦ 1. Eredità scientifica

Innanzi tutto, una nota sulla sigla IA. Questo acronimo è conosciuto universalmente, originato dalle ditte americane che hanno sviluppato i sistemi elettronici. Significa Artificial Intelligence. Ma può un artificio essere di per sé intelligente? Un artificio è un prodotto, il risultato di una ποίησις, non una πρᾶξις. La filosofia antica distingue similmente tra le parole λόγος (ratio) e νοῦς (intellectus). Per questa tradizione, la ragione (λόγος) ha una funzione di calcolo: tra due quantità, produce un equilibrio per esempio tra le entrate e le uscite del bilancio familiare, aziendale o statale. Il ruolo della ragione non va oltre tale compito. L’intelligenza è invece creatrice, non conosce i limiti della ragione. Essa «legge internamente», apprezzando per esempio le qualità propriamente umane di un lavoro, che non sono solo di tipo monetario o dell’avere; vede che un’azione o una πρᾶξις umana, anche scientifica, va oltre l’immediato, mira a un compimento ulteriore, a un valore.4

♦ 1.1. La ragione e l’intelletto: Descartes verso la Modernità

Propongo quindi di non intendere la sigla IA nel significato di «intelligenza artificiale» ma di artificialmente intelligente, indicando così che l’obiettivo umano dell’intelligenza può essere ridotto a quello della ragione calcolatrice. In ogni scienza c’è infatti una buona parte di conoscenza empirica, cioè un’esperienza che la mente riconosce essere oggettiva e che offre qualcosa da conoscere. Questo oggetto funge da norma per ogni esercizio della ragione, che ne verifica la consistenza. La consistenza dell’oggetto non viene però dagli strumenti che utilizziamo per conoscerlo, ma da un’altra fonte, che l’intelligenza o il νοῦς degli antichi coglie di un colpo. Manteniamo costantemente questa distinzione antica tra il λόγος e il νοῦς.

Questa distinzione ha una lunga storia antica e medievale.5 È stata però spesso messa in discussione, in particolare durante la Modernità. Lo constatiamo per esempio nel Discorso sul metodo di Descartes. La parola «ragione» vi ha un’estensione tale da spingere il termine «intelligenza» fuori dal lessico scientifico. Il dominio dell’intelligenza è infatti trattato da Descartes con un’ironia appena accennata.

La ragione:

La capacità di ben giudicare e distinguere il vero dal falso – ciò che si chiama propriamente buon senso o ragione – è per natura uguale in tutti gli uomini […]. Poiché è la sola cosa che ci rende uomini e ci distingue dalle bestie, voglio credere che la ragione, o buon senso, sia tutta intera in ciascuno.6

L’intelligenza:

Per la teologia, provavo riverenza, ed aspiravo non meno di ogni altro a guadagnare il cielo; ma, avendo saputo come cosa certissima che la via ne è aperta ai più ignoranti non meno che ai più dotti, e che le verità rivelate per arrivarvi sono superiori alla nostra intelligenza, non avrei mai osato di sottoporre queste ai miei deboli ragionamenti.7

I passi citati insegnano che la ragione è sufficiente per conoscere la realtà e che si possa fare a meno dell’intelligenza per progredire nella conoscenza delle cose del mondo. Questo abbandono dell’intelligenza a favore della ragione ha conseguenze precise, che stimolano infatti la scienza moderna. D’ora in poi, la ragione è caratterizzata unicamente dal suo metodo. Ecco perché il Discorso del metodo, che è del 1637, presenta nella sua seconda parte quattro precetti metodologici, di cui il secondo (l’analisi) e il terzo (la sintesi) sembrano i più importanti:

Il secondo era di dividere ciascuna delle difficoltà che esaminassi in tante piccole parti, per quanto fosse possibile e per quanto fosse richiesto per meglio risolverla.

Il terzo era di condurre con ordine i miei pensieri; cominciando dagli oggetti più semplici e facili da conoscere, per risalire a poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei più composti; supponendo un ordine anche tra quelli in cui gli uni non precedono naturalmente gli ultimi.8

Poco prima di presentare questi precetti, Descartes spiega il motivo della sua proposta: infatti, non era soddisfatto «del gran numero di precetti che compongono la logica».9 Alcune righe sotto questo passo, l’autore pone un giudizio simile riguardo alla regina delle scienze: non «mi proponevo di cercare di apprendere tutte le scienze particolari che, in genere, si chiamano Matematica».10 Le scienze che si dicevano incluse nella matematica erano infatti troppo diverse le une dalle altre: l’aritmetica, la geometria, ma anche l’astronomia, la musica, l’ottica, la meccanica, ecc.11 Non possiamo dire che il filosofo fosse insensibile all’esigenza di un metodo scientifico semplificato! Questo metodo è chiamato mathesis universalis e viene presentato come l’erede della tradizione antica, sebbene di difficile accesso, quella dell’algebra.

Descartes aveva infatti scritto quasi vent’anni prima del Discorso un testo che non pubblicò, probabilmente perché proponeva un metodo ancora troppo complicato. Questo testo, intitolato Regole per la direzione dell’ingegno, trattava di matematica; questo testo ci interessa per le righe sull’algebra inserite nella quarta regola.12 Descartes comincia con una considerazione sull’uso illimitato della matematica dagli antichi:

Ho pensato come potesse dunque accadere che un tempo i primi filosofi non volessero ammettere allo studio della sapienza chi ignorava la mathesis […], ho senz’altro supposto che essi erano a conoscenza di una certa mathesis molto diversa da quella dei nostri giorni.13

La mathesis antica evocata qui da Descartes potrebbe essere un sapere che alcuni dei suoi contemporanei chiamano algebra:

Vi sono stati uomini particolarmente ingegnosi che nel nostro secolo hanno tentato di risvegliare tale arte: infatti non sembra essere nient’altro che quella che, con un nome barbaro, chiamano algebra, se soltanto essa potesse venir liberata dai molteplici numeri e dalle inestricabili figure che la aggravano, così che non le manchi più quella somma perspicuità e facilità che supponiamo si debba trovare nella vera mathesis.14

Descartes non vede nei suoi tempi la liberazione auspicata, sebbene il concetto di algebra orienti la ricerca lessicale nella giusta direzione.

Poiché questi pensieri mi avevano richiamato dagli studi particolari di aritmetica e geometria a una generale investigazione della mathesis, ho cercato innanzitutto che cosa mai tutti intendono precisamente con quel nome e per quale motivo non solo, come già detto, l’aritmetica e la geometria, ma anche l’astronomia, la musica, l’ottica, la meccanica e molte altre sono dette parti della matematica.15

Nel Discorso, Descartes tornerà a parlare dell’algebra, ripetendo che questa non è stata liberata dai numeri (dell’aritmetica) e dalle figure (della geometria), e che quindi non può essere ritenuta fonte dei molti modi delle pratiche della matematica in musica, astronomia, ecc.16 Ha dunque intuito le possibilità di un’algebra che fosse la fonte di tutte le forme di matematica. La sua resistenza nei confronti di questa sintesi veniva però dalla sua composizione dispersa in segni, numeri e figure. Le quattro regole del metodo enunciate nella seconda parte del Discorso sono verosimilmente un prospetto di questa mathesis universalis sostitutiva dell’algebra.

La mia ipotesi è che qui risieda una delle radici della mentalità che ha portato il nostro tempo a fare affidamento sulla costruzione di algoritmi, il cui linguaggio è propriamente algebrico.

♦ 1.2. Verso gli algoritmi

La questione dell’algoritmo era già stata ipotizzata, ben prima di Descartes, nell’Ars compendiosa inveniendi veritatem di Ramón Llull del 1274. La stessa impresa è stata poi sviluppata da Giordano Bruno in un testo del 1582 che voleva «estendere l’ars combinatoria nel senso di una considerazione d’insieme dei processi del pensiero tale da consentire una metafisica completa, qualche altra volta tratteggiò una specie di nuova topica per le disputazioni e il discorso».17 Il giovane Leibniz ha ripreso questo progetto nella sua dissertazione del 1666 sull’Ars combinatoria18 e lo determina così: pervenire «a una specie di alfabeto del pensiero umano; e, attraverso combinazione di lettere di tale alfabeto e l’analisi delle parole che vengono ad essere formate, raggiungere la possibilità di tutto trovare e giudicare».19 In questi sforzi speculativi di combinazioni, l’IA ha i suoi antenati, però non su un punto essenziale. L’IA è infatti oggi produttiva. Nei secoli passati era una speculazione, il residuo di una riduzione del linguaggio a elementi tali da poter omologare tutte le realtà. L’IA, oggi, non si preoccupa infatti dell’essenza delle realtà come lo vorrebbero Llull, Leibniz e i loro amici, ma serve da intermediario fluttuante tra sequenze di righe elettroniche suscettibili di cambiare le realtà. Come? È ciò che vedremo progressivamente.

Abbiamo segnalato che all’IA viene attribuita la qualifica di matematica. Sappiamo che la matematica si divideva tradizionalmente in geometria, aritmetica, ottica, ecc. Descartes richiede però una forma sintetica iniziale, anche se con difficoltà e perplessità, ma comunque come una realtà razionale consistente che non è né aritmetica né geometrica, né musicale, né ottica, ma idealmente algebrica, la cui forma andrebbe però purificata da ogni tipo di rappresentazione delle cose. Ci avviciniamo così alla problematica attuale dell’IA e degli algoritmi. Gli algoritmi sono costruiti infatti con segni algebrici e di provenienza trigonometrica, seguendo quindi una mentalità che non è solamente geometrica, né aritmetica, né musicale, ecc., ma trasversale, come se questa fosse una grammatica valida in tutte le circostanze, fonte unica di tutte le attività umane sensate.

L’algebra non funziona con numeri, ma con segni, simboli operativi. Notiamo che già l’aritmetica possiede dei segni che non sono numeri, ma simboli di operazioni (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione) tra numeri; queste operazioni fanno sì che i calcoli matematici funzionino. L’algebra si costruisce a partire da segni di questo tipo aritmetico, che sono funzionali e non rappresentativi. Senza le articolazioni che adoperano questi segni non potremmo riconoscere che i numeri sono connessi e il loro significato trasformato. L’algebra si propone quindi come una cultura capace di interconnettere gli elementi dell’aritmetica e della geometria e, accessoriamente, della musica, dell’ottica, ecc. L’algoritmo porta quindi l’argomento al livello della funzionalità pura, che alcuni dicono espressiva delle funzioni della stessa mente umana. L’algebra acquisisce oggi una flessibilità d’uso prima sconosciuta grazie agli algoritmi.

L’evoluzione dell’algebra verso l’algoritmo è stata possibile grazie al cambiamento d’epoca che la scienza ha conosciuto all’inizio del XX secolo con i lavori di Georg Cantor (1845-1918) sulla teoria degli insiemi (con una scrittura numerica ma anche alfabetica) e di David Hilbert (1862-1943) sulla teoria degli invarianti e l’assiomatizzazione della geometria.20 La matematica è divenuta una scienza logica. Questa evoluzione è stata confermata dalle ricerche di Albert Einstein (1879-1955) e la ricostruzione della fisica scientifica attraverso la teoria matematica della relatività.

Passo dopo passo, gli scienziati entrano così in un mondo che l’esperienza sensibile non riesce più a reggere da sola. La struttura del mondo, quella che permette d’integrare numerose perplessità tralasciate dalla fisica dei secoli passati, si rivela senza rappresentazioni fisiche. Le scienze naturali e, successivamente, le scienze umane non sono più comprensibili attraverso i modelli empirici. Le realtà fisiche non sono più soggette alle leggi della necessità meccanica calcolabile. Conosciamo già da tempo fenomeni aritmetici definitivamente incompleti, ad esempio il significato del quasi numero π (il segno π indica il rapporto costante e mai perfettamente determinato tra la circonferenza e il diametro di qualsiasi cerchio: 3,141592… all’infinito). Kurt Gödel (1906-1978), autore nel 1931 del Teorema di incompletezza, ha evidenziato la radicale indisponibilità del calcolo a costituire una sequenza perfettamente chiusa. Poco prima di Gödel, in fisica nucleare, i ricercatori erano giunti a conclusioni di indeterminazione, ad esempio Louis de Broglie che, nel 1924, dimostrò l’impossibilità di concludere una perfetta corrispondenza tra i dati spaziali e temporali di una particella in movimento. Erwin Schrödinger, nel 1926, introdusse in fisica le funzioni di indeterminazione che sono, con i lavori di Einstein, all’origine della fisica quantistica. L’idea di una realtà oggettiva deve quindi passare dalla certezza discutibile dell’esperienza sensibile alla certezza indiscutibile della matematica, e infine all’incertezza della statistica.21 La probabilità statistica si impone dunque alle evidenze empiristiche, richiedendo una nuova interpretazione delle cose e un nuovo modo di scrittura, algebrico e altro rispetto a quello aritmetico o geometrico.

Il linguaggio dell’IA sembra matematico e, come si dice, i numeri non sbagliano mai. Si può però, anzi si deve, dubitare che l’essenza dell’IA appartenga alla numerazione aritmetica. È importante distinguere a questo proposito un numero e una cifra. Il numero ha consistenza in una serie di simili, mentre la funzione della cifra non vale per una rappresentazione ma per un’operazione. Secondo Karl Jaspers, la cifra ha la funzione di indicare la trascendenza. La natura della cifra è strettamente simbolica. L’inventore dell’elettronica, Alan Turing, lo segnalava già nel 1945, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale durante la quale ha avuto un ruolo importante per la sua decodificazione dei messaggi segreti emessi dall’esercito tedesco per i sommergibili U-boot attraverso la macchina chiamata Enigma. Sappiamo che, nell’elettronica, si utilizzano i numeri 0 e 1. L’interpretazione che Turing propone del significato di questi numeri non lascia però alcun spazio a una concezione che li veda come rappresentazioni di una realtà fisica.22

Per comprendere l’intenzione dei tecnici quando creano e utilizzano un algoritmo, proponiamo un’analogia tra l’IA e il DNA. Il DNA, per i biologi, è l’elemento basilare della vita, «la molecola in cui sono contenute tutte le istruzioni necessarie a una cellula per sopravvivere e svolgere le proprie funzioni», recita un motore di ricerca. Le mutazioni del DNA non sorgono spontaneamente dalla catena degli elementi che lo costituiscono, ma da alterazioni chimiche che si verificano al suo interno. Così nascono nuove specie di viventi, sulla base di un genere comune la cui catena di DNA viene modificata, riorientata o deviata accidentalmente nella storia della vita universale, o volontariamente (un virus) da un tecnico esperto in biofisica. Trasportiamo questa stessa prospettiva nel campo dell’IA: è possibile modificare le righe composte dalle due cifre 0 e 1 per cambiare i risultati che potremmo aspettarci da esse.

Supponiamo un esempio banale: la tastiera di un computer. Non dovrebbe essere difficile far sì che una tastiera costruita per una lingua A diventi una tastiera adatta alla lingua B; basterebbe modificare con scienza l’ordine sequenziale di 0 e 1 della tastiera A per ottenere la seconda tastiera. Le aziende competenti sanno che le righe elettroniche sono a loro disposizione; conoscono il pericolo dei bug (che sono spazi incongruenti nelle righe) che rimangono nei loro sistemi, minacciando la sicurezza dei loro clienti, anche se questi bug provengono dai loro stessi laboratori, per quanto precisi e meticolosi possano essere; agiscono quindi per correggere questi difetti.

C’è però una differenza tra una catena di DNA e una di IA: la prima è naturale con un supporto biologico, mentre la seconda è fisica e dipende da un supporto elettronico artificiale. Le alterazioni del DNA possono essere corrette o adattate dalla natura stessa attraverso un ambiente biologico coerente ed equilibrato, oppure rigettate fuori dal mondo della vita nel caso contrario. Una modificazione della catena elettronica risulterà invece dal lavoro specializzato dei tecnici che la manipolano mediante la loro competenza in composizione di algoritmi. Se il risultato non corrisponderà alla richiesta, la modificazione sarà abbandonata. Nel mondo dell’elettronica, le variazioni possono essere accidentali, errare humanum est, o volute. Una modifica di una catena di IA, se non è per difetto di competenza e quindi involontaria, sarà intenzionale nel senso che sarà prodotta in vista di un risultato previsto o atteso.

♦ 2. Interrogazioni metafisiche

Da un punto di vista filosofico, le problematiche dell’IA possono essere collocate tra le questioni di epistemologia e di etica.23 Nel contesto filosofico dell’epistemologia, si distinguono vari domini del λόγος, come le logiche classiche della deduzione e dell’induzione, quelle più recenti della scoperta scientifica o della storia delle scienze, e i domini del linguaggio, portatore di significazione e di senso in riferimento alle sue fonti culturali in semiotica e semantica.24 Non possiamo nemmeno trascurare gli aspetti interlocutori del linguaggio. Lo studio epistemologico del linguaggio è quindi estremamente esteso e complesso, senza che nessun dominio sia astratto dagli altri. La prima sezione del mio articolo ha esaminato alcuni di questi temi epistemologici che sono entrati nella costruzione contemporanea degli algoritmi. Abbiamo visto come questo approccio introduca direttamente alle problematiche etiche, che saranno trattate nella terza sezione di questo articolo. Nella seconda sezione, ci soffermeremo su un punto già evidenziato, la modifica durante la Modernità del rapporto antico tra la ragione e l’intelligenza, con l’apparente sottomissione della seconda alla prima, o alternativamente con l’apparente liberazione dell’intelligenza da ogni legame con la ragione scientifica.

♦ 2.1. Una tensione polare

La filosofia non può abbandonare la ragione alle scienze e prendere possesso dell’intelligenza dimenticata dalle scienze. Questa divisione epistemologica sarebbe troppo assurda. Inoltre, il destino della ragione sarà solo quello di fornire una soluzione definitiva ai problemi che la conoscenza delle cose ci impone? Esiste una scienza che abbia esaurito il suo progetto di spiegare tutte le cose del mondo? Possiamo notare che la scienza contemporanea è più consapevole di una tensione interna, rispetto a quella moderna, come evidenziato dal mondo statistico. Ora, nella filosofia contemporanea, la categoria di differenza ha ricevuto un’importanza che la filosofia moderna ha cercato di escludere dal suo lessico razionalizzante. Forse il compito della filosofia è vigilare su ciò che la ragione moderna ha dimenticato, ma che riemerge nei dati della ragione contemporanea, cioè la consapevolezza dei limiti o della fortuna dell’incompletezza.

L’ἔθος filosofico ha attraversato varie fasi nel corso della storia umana, rimanendo sempre attento all’incompleto, o a una tensione irrisolvibile. Una prima fase è stata quella greca. Con i grandi testi di umanità lasciati a noi in eredità dalle tragedie greche, cresceva il desiderio di un’umanità più costruttiva socialmente e meno abbandonata alle passioni politiche. Si doveva quindi prendere in mano il linguaggio e fare in modo che la domanda sul valore della sua intenzione fosse determinante. Quando le aporie del grande teatro classico si sono diffuse, il λόγος è divenuto problematico. Da un lato, i sofisti politici hanno sviluppato una retorica che favoriva gli interessi delle loro platee nell’immediato. Dall’altro lato, i filosofi hanno scoperto che il linguaggio nascondeva in sé la possibilità di un sapere logico, che non si esaurisce nell’immediato. Il λόγος si divideva dunque in due campi: uno confuso e opportunista, avido di cogliere l’attualità liquida con discorsi brillanti e accattivanti, l’altro che si dirigeva con cautela verso obiettivi ragionati per lungo tempo.

Apparve quindi rapidamente un’ambiguità immanente al linguaggio. Il linguaggio è concepito per un certo grado di universalità, la quale però non esiste perché esistono solo gli individui; da questo punto di vista, i sofisti hanno un vantaggio; l’universalità logica richiede invece tempo e pazienza per la riflessione. La logica che tiene i sofisti lontano da sé è apparsa poi in due modi differenti. Questi due modi sono anche due modi di costruzione analogica del linguaggio, quelli di Platone e di Aristotele. Le parole usate per nominare questi due modi sono senza dubbio moderne, essendo fissate all’epoca del concilio di Trento dal cardinal Gaetano de Vio. Si tratta dell’analogia di proporzione, che si addice al modo platonico di dare rigore al linguaggio, e dell’analogia di proporzionalità, che Aristotele rivela essere essenziale in etica.

Seguirò adesso un suggerimento di Henrique C. de Lima Vaz25 per mostrare come questa distinzione interviene nel problema dell’IA. La mentalità scientifica della Modernità è stata infatti divisa tra due opzioni, una platonica e l’altra aristotelica. Questa divisione è stata portata nella matematica, di cui i due modelli essenziali erano la geometria e l’aritmetica. La geometria è di proporzione, e l’aritmetica di proporzionalità.

La geometria si presta infatti a un’argomentazione deduttiva e sistematica. In questo senso, è chiaramente di proporzione. Parte da una misura ideale e ne deduce alcuni costitutivi immanenti. In un testo ispirato forse dalle lezioni di Platone, Aristotele segnalava che l’idea di salute si applica a uno stile di vita che la custodisce come a un farmaco che la produce.26 Similmente, in un triangolo rettangolo, la formula è costante secondo la quale la somma quadrata dei due lati opposti all’angolo retto (a²+b²) vale la misura al quadrato del terzo lato (c²). Il rapporto dell’ipotenusa nei confronti degli altri due lati del triangolo rettangolo non cambia da un caso all’altro, e quindi non è dedotto da qualche caso ma si impone già alla prima verifica. Questo modo deduttivo di procedere, more geometrico, è stato poi assunto da Descartes come da Spinoza.27

L’aritmetica segue anche la legge della geometria, però con una novità essenziale. L’aritmetica avrebbe come sottofondo la forma dell’analogia di proporzionalità, che è di quattro termini così disposti: 2/4 come 3/6. Ora, in questo modo, l’aritmetica si sottomette alla regola di unità dell’analogia di proporzione. Infatti, l’analogia di proporzionalità messa in scena nell’Etica Nicomachea è gestita da un’uguaglianza. Contiene quattro termini, la cui forma di proporzione «è una uguaglianza di rapporti».28 Tuttavia, se l’analogia di proporzione è conosciuta a priori come abbiamo evidenziato qui sopra, il mondo della proporzionalità è a posteriori, secondo le varie situazioni di una società. Il rapporto è infatti molto variabile tra una persona e il pagamento ricevuto per il servizio che rende alla società; Aristotele nota che quando questo rapporto non è giusto, cioè uguale per tutti, nascono «gli scontri e le rivendicazioni»29 della popolazione.

C’è però un altro modo di procedere in aritmetica. Una reale possibilità di infinito intelligibile è infatti possibile in aritmetica, senza che si possa rappresentarlo come un elemento definibile. L’infinito è infatti per principio irrappresentabile. L’originalità di questo infinito appare nella pratica di ciò che si chiama il processo della ricorrenza. Agostino di Ippona ne parla nel suo De libero arbitrio30 un po’ prima dell’anno 400. Questo principio torna nella Modernità attraverso una comprensione dell’aritmetica che non si chiude su sé stessa. Alexandre Koyré ha colto l’essenza del cambiamento quando ha dato il titolo Dal mondo chiuso all’universo aperto a un libro che ha pubblicato nel 1957. L’essenza di questo principio non sta tra cose paragonabili, ma nella mente umana in corrispondenza con una realtà matematica più che empirica.

Il visibile dell’osservazione moderna non è più il sensibile antico che possiamo organizzare geometricamente, cioè in proporzioni gerarchiche, perché può essere integrato in un’argomentazione indefinitamente aperta, riconosciuta valida in aritmetica. Il calcolo della quantità apre la mente alla proporzionalità tra realtà d’ora in poi diverse e sostituisce la qualità quale misura nella valutazione scientifica delle realtà sensibili. La scienza andrà poi nella direzione della proporzionalità aritmetica, allontanandosi così dalla proporzione geometrica antica e dalle sue versioni filosofiche in ontologia. Il meccanismo ispirato dalla necessità geometrica si separa d’ora in poi dall’attività razionale liberata dal determinismo fisico, come si vedrà nella Dialettica della Critica della ragion pura di Kant, che si allontana dall’Analitica. Tra l’epistemologia in cerca di un’unità supposta oggettiva e il pensiero attento all’originalità soggettiva dell’intelligenza umana, tra la ragione determinista e l’intelletto aperto indefinitamente, si apre un abisso.

La scienza moderna non è più come quella antica, contemplativa dal punto di vista del λόγος (Platone) e dell’osservazione sensibile (Aristotele). È divenuta un’operazione di conoscenza interessata. Sono stati inventati strumenti di cui ci si poteva fidare, come il telescopio e l’astrolabio che i marinai usavano per andare in America, oltre i loro orizzonti, con avventure verso un indefinito. La scienza è quindi legata all’intenzione della conoscenza più che ai fatti presenti. L’invisibile è ora nella funzione del calcolo. La pratica della scienza matematizzata prende il posto delle teorie aprioristiche della sostanza, ed evolverà in linea con il progresso di questa pratica. Per dirlo in maniera sintetica, con l’IA la ragione è divenuta intelligente e l’intelligenza razionale.

♦ 2.2. L’IA e il sapere uniforme

Ma a che prezzo? La domanda fondamentale è adesso questa: quali sono i progetti di coloro che sono impiegati nella composizione delle catene 0 e 1? Questa composizione sembra matematica, e applicabile universalmente, come abbiamo segnalato paragonando i processi di modifica del DNA a quelli dell’IA. In questo contesto si parla degli algoritmi. Ho incontrato di recente alcune persone responsabili di questo tipo di problemi e mi hanno detto che coloro che hanno il compito di creare algoritmi lo fanno di solito in assoluta segretezza, tanto sono importanti questi programmi per la vita economica e politica contemporanea. Possono anche lavorare nella massima segretezza, perché si tratta di dati che riguardano la sicurezza di un’azienda bancaria, di un dipartimento governativo o di uno Stato al massimo livello di responsabilità della pace sociale. L’idea di democrazia è ovviamente influenzata da questi segreti, per quanto più che ragionevoli possano essere. Supponiamo quindi che l’etica sociale sia rispettata dai tecnici degli algoritmi.

Il fatto che l’IA dipenda dalla condizione della conoscenza scientifica che è intrinsecamente statistica, come abbiamo visto nel punto 1.2 qui sopra, rivela un altro problema. Le statistiche evidenziano le misure medie che sostengono conclusioni durature. Il tempo e lo spazio statistici sono medi, come sappiamo dall’inizio del XX secolo. Guardiamo verso il mondo letterario. Per funzionare nella scrittura detta creativa o generativa, la macchina artificialmente intelligente calcola le occorrenze di una serie di parole di un autore nelle sue opere, tenendo conto delle circostanze o dei temi che le circondano. Visto l’enorme materiale disponibile nelle memorie delle ditte d’informatica, la macchina sarà anche in grado di discernere come questa stessa serie di parole viene utilizzata da un altro autore e trarrà la conclusione che ha un uso così ampio da non poter essere confinato in uno stile personale, ma che funziona nell’uso quotidiano medio di una lingua data. L’IA riduce così l’originalità letteraria di un autore al livello di una media statistica normale e quindi universalmente disponibile. Ho conosciuto università in cui, per reagire ai rischi del copia e incolla, si chiedeva agli studenti di utilizzare la prima versione di ChatGPT, rilevando però tutte le carenze proposte online rispetto alle lezioni ascoltate e agli scritti redatti sotto la guida dei docenti, e di proporre correzioni argomentate riguardo al metodo da seguire e i luoghi di una ricerca scientifica più raffinata e completa per andare avanti nelle argomentazioni.

Proponiamo un esempio. I giornali hanno opinioni che si riflettono nel loro stile linguistico. Questi stili variano da un giornale all’altro, secondo le loro opinioni politiche e la ricchezza del linguaggio dei loro lettori abituali. L’IA osserverà che una serie di parole viene utilizzata in un determinato giornale quando viene trattato un argomento specifico. I lettori si aspetteranno quindi che un determinato giornale utilizzi una particolare sequenza di parole per spiegare determinate situazioni e saranno soddisfatti della rassicurante coerenza di queste espressioni. Se invece si imbattono in variazioni di espressioni laddove si aspettavano opinioni consolidate da tempo, rimarranno stupiti e cambieranno giornale con l’idea che questo abbia mentito fino ad ora, o che abbia tradito le loro opinioni. Questi lettori avranno quindi fatto un passo indietro nella comprensione di ciò che interessava loro, ma non necessariamente un passo avanti nella loro competenza in questo dominio. La libertà d’opinione deriva dalla molteplicità delle fonti d’informazione. Ma chi avrà abbastanza tempo ed energia per moltiplicare le proprie fonti di informazione e rischiare di essere tentato da cambiamenti qualitativi di opinione? Chi avrà una tale libertà mentale?

Un altro esempio: l’IA, i cui algoritmi si auto-correggono, sostituirà le persone che pensano, esitano, ammettono di non sapere, con una conoscenza assolutamente impersonale e sicurissima della propria auto-evidenza.31 Non ci sarà più quindi nessuno che dovrà assumersi la responsabilità della sua pratica? Non ci sarà più alcun impegno necessariamente personale?32 Saremo allora sulla strada di una dittatura dello schermo senza alcuna resistenza possibile, una dittatura che non avrà altra legge che l’ingannare l’ingenuità delle persone che si immaginano libere di usarle e conquistare le loro finalità.

Nella nuova cultura che anima la stampa quotidiana, la felicità dell’IA sembra venire dal perfetto meccanicismo della modernità, cioè dalla legge della necessità causale illimitata. Questa figura della tecnologia non manca però di creare tra le persone colte e critiche inquietudini etiche e antropologiche. Tuttavia, queste inquietudini non toccano l’IA in sé ma il suo modo di essere costruito e utilizzato.

Un ultimo problema: la velocità con cui l’IA raggiunge gli interessi del pubblico accresce il dibattito sull’etica e sulla responsabilità personale. La monotonia verso cui si sta dirigendo la comunicazione elettronica mediatizzata può essere sostenuta eticamente solo cambiando continuamente le nostre fonti di informazione, con il rischio comunque di trovare ovunque gli stessi dati ma con figure diverse. Come tutti sappiamo, la cultura odierna non sopporta lunghi discorsi. Ha bisogno di frasi corte, di slogan, se possibile violenti o scandalosi, per catturare l’attenzione. I ricercatori in queste materie, le neuroscienze, hanno osservato che l’impoverimento del linguaggio finisce con il danneggiamento dei circuiti neurali del cervello.33 Grazie all’IA, o a causa di essa, i circuiti mentali specializzati nella ricerca di informazioni sono oggi estremamente veloci e abbreviati, e così ben organizzati che non abbiamo più la necessità di cercarle altrove, rischiando di perdere tempo perché «il tempo è denaro». L’assenza del gusto di dubitare per sapere di più, di generare una ricerca approfondita e originale di senso, non è però indifferente dal punto di vista dell’umanizzazione.

L’attenzione e la riflessione diventano difficili nell’era dell’IA, richiedono molti sforzi mentali, e la concorrenza dell’IA è fortissima. La mente è viva, ma il cervello si stanca e si addormenta nonostante i nostri tentativi di animarlo. Quando basta un clic per soddisfare sé stessi o per convincersi di essere soddisfatti, finiamo per confessare che ce la caviamo benissimo senza l’attenzione e la riflessione. Ma questa pigrizia non dovrebbe suscitare preoccupazione per la solidità della nostra cultura, del nostro sapere e della nostra capacità personale di difendere le nostre opzioni di vita?

♦ 3. L’etica oltre l’IA

In un articolo del 1994, Jean Ladrière sottolinea la necessità di una nuova interpretazione dopo che, al primo momento della spiegazione tecnica, sia stata data in un secondo momento un’interpretazione da parte dei costruttori dell’algoritmo per orientare le loro decisioni di manipolazione delle righe 0 e 1 in una direzione richiesta da un contratto. Con questa nuova interpretazione, cioè con la terza tappa del processo d’uso delle righe elettroniche, non si tratta di tornare alla prima fase, quella dell’intervento della meccanica dell’algoritmo sulle catene dell’IA, ma di considerare che la seconda fase del lavoro sulle righe disponibili potrebbe essere diversa perché le condizioni di un contratto non valgono per loro stesse, ma per i valori che mettono in causa, anche se abitualmente il contratto è considerato come certificato di valore – ciò che non vale filosoficamente. Si tratta quindi di proporre adesso un discorso interpretativo di secondo grado, sul senso del possibile riordinamento della pratica dell’algoritmo.

♦ 3.1. Una seconda interpretazione

Si considera allora che la creazione degli algoritmi ha una potenza teoricamente illimitata, ma che viene limitata dalle stipulazioni del contratto di lavoro. Potrebbe però andare al di là, o in un altro modo, per esempio considerando che l’orientamento del contratto non rispetta la dignità delle persone. Non sarebbe questo il momento in cui dovrebbero entrare in gioco i cosiddetti comitati di etica, anche se questi incontrano molte difficoltà sotto la pressione dei proprietari degli «a-social-media». La nuova interpretazione richiesta trent’anni fa da Ladrière tocca la questione della finalità seconda ma immanente al libero maneggiamento delle righe elettroniche.

Il riferimento qui non è prodotto dall’applicazione meccanica dell’algoritmo alle righe delle catene elettroniche, ma esterno. È infatti il mondo della vita umana, in cui è possibile fare del bene e del male. Cos’è il bene, diranno i tecnici dopo il primo momento della spiegazione dell’algoritmo e il secondo della determinazione di una finalità immediata, da contratto? Il bene sarà solo del capitale monetario, di portare soldi all’azienda in qualsiasi modo, anche ingannando i clienti offrendo loro il richiesto e qualcosa in più senza dirlo e senza che sia stato richiesto qualche strumento d’informazione del produttore? La tecnica dell’algoritmo offre molte finalità possibili attraverso un pacchetto di strumenti. Tocca alla persona responsabile di sé e dell’algoritmo che sta sistemando le righe avere in vista una finalità a misura umana. Che cosa sarebbe però una finalità a misura umana? È evidente che qui s’impongono opzioni di pura libertà e responsabilità personale, che implicano aspetti tecnici e aspetti che non si riducono ad essi.34

Sembra che questa non possa essere l’attenzione principale richiesta ai tecnici. Non è di queste cose che le imprese chiedono loro di occuparsi. In ogni caso, però, non possono assistere passivamente a una conclusione del loro lavoro che sarà di obiettiva ingiustizia. Al tempo della creazione dell’artefatto, che coincideva con l’era della nuova comunicazione globale, si potevano intravedere i vantaggi per l’umanità, ma i nostri tempi di fake news o di notizie sbagliate volontariamente per incompetenza manifestano la necessità di disciplinare il primo rapporto d’interpretazione delle righe alla luce di una seconda interpretazione, che sarà propriamente etica. Perciò, vorremmo che non si dimentichi la complessità umana e che la conoscenza di questa complessità venga trattata con maggiore prudenza, poiché giorno dopo giorno essa stessa diventa sempre più complessa e approssimativa. Gli elementi di questa complessità, anche informatici, sono chiamati a trovare un equilibrio in un insieme umano mai definito a priori.

Jean Ladrière si è interessato alle questioni epistemologiche delle scienze. L’idea che genera il pensiero contemporaneo è infatti quella di una totalità data ma complessa, dove l’integrazione dei molti sarebbe già data ma in linea di principio, e ancora da ricercare nel moltiplicarsi delle specializzazioni scientifiche. Due possibilità si propongono qui. La prima è geometrica e classica, invita a cercare un sistema che dipenda da un principio primo, da una scienza prima. Questa via si verifica però impraticabile, vista la diversificazione delle pratiche scientifiche.35 La ricerca intellettuale deve tentare un’altra strada, verso un significato integrale dato a priori ma senza tralasciare i molti dati nella vita quotidiana. Questa seconda strada sarebbe quella di un significato possibile che non sia uno ma trasversale in molti particolari. Si conferma così l’eccellenza della problematica della proporzionalità nelle scienze, ma con la sfumatura di un’apertura saggia e indefinita.

A questo punto, si comprende perché la scienza è più legata alle dinamiche del significato che alla conoscenza di fatti immediatamente presenti.36 La scienza contemporanea ha preso la forma di un’ermeneutica, cioè di un’interpretazione regolata di ciò che si mostra e anche di ciò che non si mostra, che è più lontano dei nostri orizzonti ma anche accessibile senza ricorrere alle entità di una metafisica classica svuotata di senso reale. L’invisibile è ora dentro i nostri algoritmi. La pratica della scienza con i suoi molti strumenti s’impone d’ora in poi alle teorie a priori della scienza, la cui evoluzione va in linea con il progresso della sua pratica. La teoria delle scienze diventa così un’ermeneutica della πρᾶξις scientifica piuttosto che della ποίησις di oggetti analizzabili oggettivamente.

♦ 3.2. La pratica scientifica e l’azione

Che cosa succede infatti durante la pratica scientifica? Gli scienziati ne sanno qualcosa, ma non si preoccupano di spiegare l’essenza non tecnica dell’evento che nasce dalle loro pratiche, che è l’evento di un significato sensato. Le loro analisi in vista della scoperta scientifica, in altre parole la loro euristica, sono anche un’ermeneutica o un’interpretazione del mondo fisico tale da permettere, passo dopo passo, di vedere in quale direzione può andare la loro ricerca e cosa possono aspettarsi da essa. Il lavoro scientifico va oltre il presente della scoperta, si nutre delle pratiche tradizionali e nuove della ricerca e guarda al futuro essendo stimolato oggi ad andare oltre. Diciamo noi che il lavoro degli scienziati si svolge nella verità perché tende verso la verità. La parola verità crea però polemiche oggi, come sempre nel passato. Conoscete però voi uno scienziato che non si preoccupa della verità delle sue ricerche, che cerca in un modo disordinato, di qua, di là, divertito, e senza integrare niente nel suo discorso? Uno scienziato è per necessità pratica coerente con sé, anche se ricco di dubbi, mai del tutto sicuro. Paul Ricœur diceva: «Spero stare nella verità».37 Ci sarebbe uno scienziato che avrebbe scartato questa speranza?

Tra la verità e noi o gli scienziati, sta il mondo, simbolo di totalità.38 Il termine mondo designa ciò in cui viviamo. Ogni persona vive innanzitutto nel proprio mondo, cioè in un insieme coerente di rappresentazioni da cui trae le proprie possibilità di azione. Anche la parola cultura connota un mondo, ma il suo significato è più intellettuale. La cultura è il mondo a partire dal quale critichiamo le nostre azioni con consapevolezza delle realtà vissute. È anche un mondo d’idee, di progetti, che orientano le nostre scelte e suscitano in noi desideri determinati non solo dalle nostre volontà particolari o dalle nostre competenze, ma anche dagli stili che ci impongono i modi e costumi della nostra vita sociale. Più le nostre culture offrono competenze grazie a varie formazioni adeguate, più i nostri mondi si rivelano realmente complessi.

Che cosa succede quando il percorso della coscienza arriva a un bivio e non si sa bene quale direzione prendere? Quando uno scienziato si trova di fronte a un problema di questo tipo, ha bisogno di risorse finanziarie per realizzare il suo progetto nelle migliori condizioni tecniche possibili. C’è qui una libertà di scelta. La pratica scientifica allontana lo spettro della necessità immediata o del destino unidirezionale dalle opere della ragione. Questa libertà appare nel momento in cui si sceglie uno strumento tra altri possibili, però alla luce di un possibile futuro riuscito. Si manifesta qui una finalità che anima la scienza al di là delle necessità già programmate.39 E appare anche qui l’importanza di una cultura ambientale che suscita in noi propositi non sempre ragionevoli, cioè rinchiusi in un insieme di possibilità assicurate.

Potremmo continuare la nostra riflessione sulla stessa linea considerando quanto segue: l’uso di uno strumento nel corso della ricerca può dare risultati imprevedibili ma che possono essere utili alla ricerca in corso, anche se imponendo modifiche o addirittura punti di svolta, alcuni fondamentali e altri superficiali, comunque utili in altre possibili ricerche future. La domanda allora è questa: non sapendo quale strumento sarà più efficace per la mia ricerca, come fare la scelta giusta? Provando tutte le possibilità, una dopo l’altra? Questo approccio potrebbe continuare all’infinito, ma a un certo punto si dovrà decidere cosa fare effettivamente. Il ricercatore avrà quindi bisogno di consulenti competenti per accelerare il suo processo decisionale. Si tratterà però allora di una sorta di scommessa, senza soluzione assolutamente necessaria. Viene qui ciò che Ladrière chiamava un’ermeneutica di secondo grado, che infatti è anche il livello dell’intelligenza40 e dell’etica.

I problemi etici imposti dall’IA sono urgenti dal punto di vista dell’antropologia filosofica. Provengono, infatti, dai domini dell’etica le inquietudini che genera l’IA, perché essa sembra capace di sostituire progressivamente le persone umane nelle loro molte azioni. Notiamo che la parola greca ἔθος non tratta solo di questioni di moralità. L’etica ha infatti un significato più ampio e radicale della morale.41 Si preoccupa della finalità delle nostre azioni. La morale, invece, stabilisce i codici di condotta delle nostre società e presuppone che un’autorità ne sia garante. In questo senso, l’etica è dinamica e proiettiva, mentre la morale verifica la correttezza sociale di un agire personale. L’etica ha infatti un’estensione più metafisica che culturale.

La parola azione è tipica dell’etica, perché ogni azione è un modo di agire con un certo scopo. Se l’etica considera le finalità delle nostre azioni, si occupa anche delle azioni scientifiche e quindi dell’epistemologia. Chi impara una scienza deve infatti imparare come si fa per ottenere un certo obiettivo, e questo varia da una scienza a un’altra, e da un secolo all’altro. Parlare di ἔθος in filosofia significa quindi parlare di modi di procedere, di comportarsi nel mondo, con una prospettiva finalistica che non esclude niente, cioè che integra tanto la natura delle scienze oggettive quanto la cultura delle nostre comunità umane, il loro interesse nel conoscere le cose.

♦ Conclusione

All’origine del nostro articolo, c’è una semplice domanda. L’IA ha due aspetti fondamentali, quello elettronico, cioè del supporto fisico-chimico che tocchiamo quando utilizziamo la nostra tastiera o cambiamo le nostre chiavi USB, ecc., e quello matematico (per modo di dire) che serve per creare formule algoritmiche che non si toccano mai sensibilmente e che rimangono altamente misteriose per il «comune mortale». La domanda è: come si articolano questi due aspetti, che vengono sempre insieme nella pratica della cosiddetta IA?

Il caso dell’IA non è nuovo nella pratica umana. Da sempre, ed è una caratteristica del sapere umano, l’uomo si è creato degli strumenti, poi strumenti di secondo grado per creare strumenti di primo livello, poi strumenti di terzo grado per creare strumenti di secondo grado, ecc. Non c’è qui nulla di strano. Notiamo tuttavia che l’uomo agisce così, spinto dal desiderio di ottenere qualcosa che non otterrebbe mai se rimanesse a non fare niente. La ποίησις umana distingue già l’umano dal mondo animale, essenzialmente perché l’umanità è capace di sofisticarla, e sa sofisticarla perché prende coscienza che essa risulta da una πρᾶξις, da un impegno sorvegliato da sé stesso per essere coerente con un desiderio che lo porta ben al di là del presente e che lo rende insieme responsabile del presente.

Ovviamente, questo desiderio va μετὰ τὰ φυσικά; lo sostiene una richiesta di senso piuttosto che di una realtà oggettiva e manipolabile, una richiesta che conosce il suo orizzonte ma che sa anche che non potrà mai possederlo. Il pericolo dell’IA sta precisamente nella tentazione di prendere possesso dell’evento che l’IA stessa fa emergere, cioè di non aspettarsi nulla che sia al di là della ricomposizione del sensibile mediante gli strumenti matematici. In questo caso, in assenza di una nuova interpretazione, come chiedeva Jean Ladrière, l’algoritmo prende possesso delle righe 0 e 1 dell’umano e del desiderato fondamentale della mente umana. I costruttori degli algoritmi divengono i maestri irresponsabili del mondo, non importa ciò che ne faranno. E nessuno sarà responsabile di questa irresponsabilità. Ecco un ideale di vita? Ovviamente, molti aspettano questa liberazione dalle loro responsabilità dinanzi al bene comune. D’altronde, che cos’è il bene comune? Rimane questa domanda.


1. Per l’Occidente, cf. P. Benanti, La Grande invenzione. Il linguaggio come tecnologia, dalle pitture rupestri al GPT-3, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2021, i capp. 2 (Il linguaggio: la grande invenzione), 3 (Abitare un mondo di parole. Un interludio) e 4 (La rivoluzione del libro: oralità, scrittura, e tecnologia della parola).

2. M. Benasayag et al., L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2014.

3. Cf. P. Gilbert, Dalla ragione allo spirito. La dinamica affettiva del conoscere umano, Roma, Stamen, 2023.

4. «La dimensione riflessiva e autocosciente dell’intelligenza corrisponde a quella facoltà di giudizio che abbraccia in un unico sguardo la dimensione cognitiva, etica ed estetica della nostra esistenza. La capacità di argomentare razionalmente una scelta etica o estetica […] riguarda invece l’interazione, la mediazione delle passioni con l’intelligenza e la razionalità, che sono a loro volta influenzate da queste dimensioni» (R. Presilla, Intelligenza naturale e artificiale: sì, ma quale intelligenza?, in Vita e pensiero 107/2 [2024], 122).

5. Cf. il commento classico di J. Péghaire, Intellectus et ratio selon s. Thomas d’Aquin, Montréal, Université de Montréal, 1936.

6. AT VI, 2,2-29; trad. 25-27 (i riferimenti delle nostre citazioni: prima, Œuvres de René Descartes, t. VI, Adam et Tannery [ed.], Paris, Vrin, s.d. [edizione on line de l’University of Ottawa]; poi la traduzione: R. Descartes, Discorso sul metodo, trad. di M. Savini, in Id., Opere 1637-1649, G. Belgioioso [ed.], Milano, Bompiani, 2012). Altro esempio: AT VI, 43,5-12; trad. 100.

7. AT VI, 8,8-14; trad. 48-49. Cf. anche AT VI, 5,22-25; trad. 46; AT VI, 37,4-9; trad. 91.

8. AT VI, 18,24-31; trad. 45.

9. AT VI, 18,12-13; trad. 43.

10. AT VI, 19,30-31; trad. 45.

11. AT X, 377,14-15; trad. 705-707.

12. R. Descartes, Œuvres de René Descartes, t. X, Adam et Tannery (ed.), Paris, Léopold Cerf, 1908 (edizione on line); per la traduzione: Regole per la direzione dell’ingegno, trad. di M. Savini, in R. Descartes, Opere postume 1650-2009, G. Belgioioso (ed.), Milano, Bompiani, 2009. Qui: AT X, 375-381, trad. 702-709. Si vedrà un commento sulla questione dell’algebra in R. Descartes, Règles utiles et claires pour la direction de l’esprit en la recherche de la vérité, J.-L. Marion – P. Costabel (ed.), Den Haag, M. Nijhoff, 1977. Il commento sulla questione dell’algebra (153-164) è di J.-L. Marion e P. Costabel.

13. AT X, 375,22-376,5; trad. 703.

14. AT X, 377,2-9; trad. 705.

15. AT X, 377,11-15; trad. 705-707.

16. Cf. in AT VI, 17,13-14,27; 20,23; 21,27.

17. M. Sancipriano, Ars combinatoria, in Fondazione centro studi filosofici di Gallarate, Enciclopedia filosofica, vol. 1, Bompiani, Milano, 2006, 735.

18. Una rivista on line, Lo Sguardo. Rivista di filosofia, offre nel suo primo fascicolo del 2022 un numero intero su molti argomenti che toccano gli algoritmi: Algoritmo. Genealogia, teoria, criticità. In questo fascicolo si vedrà di J. Toscano, Intentionalities of the Algorithm: Historical Practices and Socio-Computing Infrastructures. A Philosophical Account, pp. 31-52; F. Levin, Produire l’inconnu. L’intelligence artificielle au prisme des ambivalences du rationalisme leibnizien, pp. 53-66.

19. Citato da Sancipriano, Ars combinatoria, 736. L’autore conclude che «la matematica finisce così con l’assumere la veste di una mathesis universalis capace di fondare non solo la logica universale, ma anche i principi di uno svolgimento logico avente in sé le sue regole di sviluppo» (Sancipriano, Ars combinatoria, 736). Non siamo lontani dall’intelligenza artificiale generativa.

20. Su queste novità in matematica, si vedrà l’articolo di L. Margaria, Dal mondo al dato, dal dato al codice. Sulla necessità di una teoria della conoscenza e del linguaggio nel rapporto con il mondo, in Archivio teologico torinese 30/1 (2024), 35-53.

21. Cf. E. Runggaldier, Il naturalismo filosofico contemporaneo e le sue implicazioni antropologiche, in A. Spadaro (ed.), IA (Accènti 13), Roma, La Civiltà Cattolica, 2024, 20-35. Le metafisiche classiche, che conoscono bene i cammini ciechi dell’empirismo, riproducono però lo stesso schema mentale, soprattutto le metafisiche dell’essere che non sono altre che ontologie in cui presiede l’esigenza di un principio primo di cui la funzione non sarà altro che una causa modellata sulla causa efficiente. Il mio libro Dalla ragione allo spirito, considerando la differenza tra le parole realtà e reale, tenta altre vie ispirate da una polarità di semiotica e di semantica.

22. In un articolo del 1945, Proposta per lo sviluppo nella Divisione Matematica di una macchina calcolatrice, in A. Turing, Intelligenza meccanica, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, 29-62, l’autore scrive infatti queste righe: «La velocità del suono sia nel mercurio che nell’acqua è tale da causare un ritardo di 1,024 ms. L’informazione da immagazzinare può essere considerata una successione di 1024 cifre (0 o 1), o elemento di modulazione (segno o spazio). Queste cifre saranno rappresentate da una successione corrispondente di impulsi: la cifra 0 (o spazio) sarà rappresentata dall’assenza di un impulso al momento appropriato, la cifra 1 (o segno) dalla sua presenza» (p. 35). La scelta di queste cifre simboliche, 0 e 1, viene dallo spazio elettronico (numero di bit) occupato nella memoria fisica della macchina. Ecco perché non è possibile scegliere altri segni come § e €, che sono golosi di bit.

23. Cf. L. Floridi, On Algorithms: Ethical and Epistemological Questions. Interview with Igor Pelgreffi, in Lo Sguardo 34/1 (2022), 69-78.

24. Il trattamento algoritmico sarà capace di intendere le sfumature infinite che il linguaggio nasconde in sé? Cf. G. Cucci, Per un umanesimo digitale, in Spadaro (ed.), IA, 6-19.

25. H. de Lima Vaz, Ética e ciência, in Id., Escritos de filosofia, t. II: Ética e Cultura, São Paulo, Edições Loyola, 1988, 181-224.

26. Aristotele, Metafisica, Γ, 4, 2 (1003a35-b1).

27. R. Descartes, nelle risposte alle obiezioni fatte alla seconda delle sue Meditazioni sulla filosofia prima, e B. Spinoza, nella sua Etica.

28. Aristotele, Etica Nicomachea, V, 3 (1131a30-31). La formula della proporzionalità sarebbe di questo tipo: ad ognuno ciò che merita.

29. Aristotele, Etica Nicomachea, 1131a23.

30. Agostino, De libero arbitrio, II, viii, 23: «Seguendo la serie dei numeri dopo l’uno si incontra il due. Esso rapportato all’uno è il doppio. Il doppio di due non viene successivamente ma, interposto il tre, segue il quattro che è il doppio di due. Questa norma si estende con legge fissa e immutabile a tutti gli altri numeri» (Sant’ Agostino, Dialoghi II, D. Gentili [ed.], Roma, Città Nuova, 1992, 239).

31. M. Grosso, nel suo articolo Tra umano e digitale: un contributo dalla metafisica dell’Archivio teologico torinese 30/1 (2024), 55-71, vede la difficoltà della sostituzione meccanica delle persone all’ombra della categoria dell’imitazione, sottolineando la debolezza di una tale prospettiva.

32. Cf. J. Kaplan, Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Roma, Luiss University Press, 2021.

33. Cf. M. Wolf, The impact of Digital Mediums on the Development of Critical Analysis and Empathy in the Reading Brain, in M. Marassi – N. Scotti Muth (ed.), Umanesimo e digitalizzazione. Teoria e realizzazioni pratiche, Milano, Vita e Pensiero, 2024, 77-92.

34. «Non è possibile riconoscere un significato etico a una situazione priva di significato esistenziale. Ma è possibile trasformare tale situazione in una situazione esistenzialmente significativa, che, in virtù del suo significato esistenziale, porta con sé un ragionevole significato etico che può essere assunto in un’autentica posizione etica» (J. Ladrière, La déstabilisation de l’éthique, in Id., L’éthique dans l’univers de la rationalité, Québec, Fides, 1997, 87).

35. È chiaro che la tecnologia elettronica, anche se entra come strumento in tutti gli spazi della ricerca universitaria, rimane solo uno strumento, essendo ogni algoritmo costruito con un obiettivo preciso.

36. J. Ladrière, L’action comme discours de l’effectuation, in Centre d’archives Maurice Blondel, Journées d’inauguration 30-31 mars 1973, Louvain, Éditions de l’Institut supérieur de philosophie, 1974, 17-28.

37. P. Ricœur, Storia e verità, Lungro di Cosenza, Marco, 1991, 50-51.

38. Cf. J. Ladrière, Vérité et praxis dans la démarche scientifique, in Revue Philosophique de Louvain 72 (1974), 284-310.

39. Cf. J. Ladrière, Technique et Eschatologie, in Revue d’histoire et de philosophie religieuses 54 (1974), 485-493.

40. «I dati possono offrire delle risposte, ma non pongono mai le domande intelligenti di cui, magari, contengono le risposte. Queste domande dobbiamo trovarle noi stessi e, se abbiamo troppi dati, essi possono distrarci al punto tale che non riusciamo più a porle. […] Per utilizzare i nuovi dati in maniera intelligente si deve già previamente disporre delle categorie giuste e soprattutto si deve sapere che cosa si vuole raggiungere» (V. Hösle, Fenomenologia, ermeneutica e digitalizzazione, in Marassi – Scotto Muth [ed.], Umanesimo e digitalizzazione, 50).

41. Cf. P. Ricœur, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993, 264.

 

 


Abstract:

The article first seeks from which scientific heritage the IA comes. It then specifies the type of excellence or threat that would be immanent to it, that is, its status as a useful tool. It finally attempts a philosophical and apt reflection.

Keywords ♦ Descartes, René (1596-1650) – Floridi, Luciano (1964-) – Ladrière, Jean (1921-2007) – Turing, Alan Mathison (1912-1954)

 

Citazione:

P. Gilbert, Intelligenza artificiale, metafisica ed etica, in Fidei Communio 1/1 (2025), 123-147

DOI: 10.12875/FC251005